L'ANALISI
16 Settembre 2013 - 11:14
Curtis Kelly ai tempi dell'Hapoel Tel Aviv
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Con Curtis Kelly, 205 cm d'altezza ed un'apertura di braccia di 223 cm, la Vanoli Cremona avrà il primo centrone americano della sua giovane storia tra i pro.
Chi ha sempre invidiato alle squadre avversarie i “big man” come Lawal, Linton Johnson o Tony Easley, ora anche al PalaRadi potrà ammirare questa tipologia di giocatore. Il che non significa necessariamente che avrà lo stesso impatto dei sopracitati. Kelly però, reduce da due buone stagioni israeliane all'Hapoel Tel Aviv, ha tutto per fare bene.
Due le caratteristiche principali di Kelly.
La prima è la combinazione fisico-atletica: è un centro agile e sa come far fruttare questa sua dote per essere una presenza in area, in attacco così come in difesa, dove sarà l'intimidatore che mancava. E' un buon “rollante” sui giochi a due, e le mani del pianista Woodside non aspettano altro, ed anche se non è un verticalista spaventoso, ha braccia lunghe per giocare spesso oltre il livello del ferro.
La seconda è la tecnica: nato come ala forte, Kelly ha provato a sviluppare entrambe le sue dimensioni. Quella frontale è fatta di un buon uno contro uno negli ultimi due metri e di un jumper mancino pericoloso sino al vertice dell'area. Quella spalle a canestro porta in dote un buon semigancio ed un ottimo uso del piede perno, pure se lo spin-move che lo contraddistingue in Italia è sempre più sanzionato. Dovrà fare attenzione.
Nativo del Bronx, ha giocato a Rice high school con Edgar Sosa e Kemba Walker. Al college s'è diviso tra Connecticut e Kansas State: il meglio l'ha dato con i Wildcats del duro Frank Martin, che guidati in campo da Jacob Pullen arrivarono nelle prime otto del tabellone Ncaa nel 2010. Le zone d'ombra sono almeno tre: non è un rimbalzista costante, ai liberi passa di poco il 50% in carriera e al college ha collezionato tre sospensioni per violazioni dei regolamenti interni. Ma con Tel Aviv s'è messo in luce solo positivamente, riportando l'Hapoel nel massimo campionato.
Capitolo Watson. Nessuno si aspettava di vederlo tirato a lucido e pronto per giocare: fisicamente era in buona forma ma il ritmo partita lo si acquisisce solo giocando, e lui, fermo da due anni, in questo momento ne aveva davvero poco. Forse il progetto del suo rilancio è stato accantonato troppo in fretta, ma forse nemmeno lui s'è aiutato. A luglio era definito un rischio calcolato, una scommessa ponderata. Perché si confidava di vincerla. Oggi lo è stato perché a settembre, sfruttando una clausola del contratto, lo si è liberato senza costi aggiuntivi per prenderne un altro. Senza rancore. Il basket di oggi è anche questo.
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