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La nostra Europa è in pericolo. Il peggio è possibile

Ecco perché deve immunizzarsi dal populismo e dai nazionalismi

24 Giugno 2025 - 05:30

La nostra Europa è in pericolo. Il peggio è possibile

L’Europa è in pericolo: rischia la paralisi e la disgregazione. L’Europa rischia un’involuzione e una decomposizione. Nonostante i successi degli ultimi decenni, dinanzi alla crisi le forze centrifughe si sono moltiplicate. Dinanzi alla crisi, l’Europa politica è ancora debole e fragile. L’Unione Europea non ha ancora una politica estera, né una politica di difesa comune. L’Unione Europea non possiede una reale autorità metanazionale, che possa far fronte alle esigenze del suo sviluppo economico. L’Unione Europea rischia costantemente la paralisi politica, dovendo prendere le decisioni più importanti all’unanimità. E nella paralisi politica, sono i tecnocrati a imporsi.

L’Unione Europea ha oggi un serio deficit di democrazia. Le sue istituzioni politiche sono sorte al traino dei processi di unificazione economica e non sono mai state progettate armonicamente per garantire l’equilibrio dei poteri e la sovranità popolare. Il parlamento europeo, eletto a suffragio universale, è ancora marginale rispetto ai poteri della Commissione e del Consiglio degli Stati. L’Unione Europea non ha saputo e non sa esercitare un efficace controllo sugli sviluppi interni ai singoli stati. Non ha esercitato un efficace controllo sugli squilibri del bilancio interno della Grecia e di altri stati allorché era ancora possibile intervenire in maniera meno punitiva di quanto poi sia accaduto.

Non esercita un efficace controllo sulle regressioni antidemocratiche dei singoli stati, che si presentano ogniqualvolta accedano al governo forze marcatamente populiste. L’Unione Europea tende a trascurare gli obiettivi sociali, per privilegiare obiettivi puramente finanziari. L’Unione Europea sta perdendo popolarità e forza di attrazione in tutte le opinioni pubbliche dei singoli stati. La crisi viene utilizzata in maniera strumentale da populismi, nazionalismi, autoritarismi, localismi, razzismi della più diversa natura, e che hanno tuttavia in comune le parole d’ordine dell’antieuropeismo. La sensazione di una lontananza, di un’estraneità e di un’eccessiva burocratizzazione dell’Europa è peraltro ben più diffusa, e tocca molti cittadini con convinzioni chiaramente democratiche. Per immunizzarsi dal populismo distruttivo, l’Europa deve democratizzare le sue istituzioni.

L’Europa è in pericolo: i nazionalismi e i localismi la minacciano. L’Unione Europea continua a dover fare i conti, in ogni paese, con nazionalismi chiusi e con varie forme di xenofobia. Le vecchie forme di nazionalismo chiuso possono saldarsi con nuovi populismi, nel segno di un'opposizione all’Europa e alla globalizzazione. E ciò porta paradossalmente a occultare gli aspetti positivi di quelle identità nazionali che pure nazionalismi e populismi pretendono di difendere e di sostenere. Rinasce senza posa l’attitudine a identificare capri espiatori. L’Europa ha superato con fatica le due malattie nazionali: la pulizia etnica e l’assolutizzazione dei confini. Ma non ne è ancora totalmente immune. Lo spettro di nuove purificazioni, etniche o etnico-religiose, oggi rischia di animarsi soprattutto contro i migranti minacciati nei paesi interni all’Europa e contro i migranti impietosamente respinti alle sue porte. Disumane sono le condizioni degli immigrati senza permesso nei campi di soggiorno dell’Europa occidentale. Il rischio è quello di una nuova virulenza delle due malattie da cui l’Europa sembrava affrancata.
Il rischio è di regredire agli aspetti peggiori dell’Europa intollerante dell’età moderna. Il nemico dell’Europa si è spostato, trasformato, diffuso. Non è tanto oltre i confini di ciascuno stato, quanto entro gli stessi confini di ciascuno stato. Nello stesso tempo, nuovi nemici imperiali, ideologici, planetari sorgono oltre i confini dell’Europa. Ci si può perdere, tutti insieme. Ma ci si può anche salvare, tutti insieme. (…) L’Europa ha bisogno vitale di una nuova metamorfosi. L’Unione Europea deve oggi portare a compimento il suo lungo e tentennante processo di unificazione politica. Deve rigenerarsi in una federazione di stati nazionali, che è una forma istituzionale del tutto inedita e innovativa. Questa metamorfosi è improbabile. Ma è una metamorfosi necessaria, se l’Europa non vuole ridursi all’irrilevanza o addirittura scomparire come entità significativa. Questa metamorfosi è imposta dai processi di globalizzazione. Per l’Europa nel suo complesso, essi significano l’ultimo, definitivo fallimento delle sue ambizioni di controllo sul mondo. Per i singoli stati nazionali europei, significano anche un’accresciuta difficoltà di governo delle singole società nazionali, esposte a influssi globali di ogni sorta, che superano ogni confine tradizionale.

L’Unione Europea è oggi paralizzata in un paradosso: da un lato, è urgente che gli stati nazionali cedano una parte di sovranità all’Unione Europea, per mantenere il loro stesso benessere e per impedire il prevalere di tendenze disgregatrici sempre crescenti e sempre meno controllabili; dall’altro lato, le resistenze di fondo derivano dalla natura stessa di questi stati nazionali, che appunto sono nati e si sono sviluppati aspirando a una sovranità assoluta, non sottoposta ad alcun vincolo esterno e superiore. Gli stati manifestano peraltro la stessa resistenza anche a delegare parte della loro sovranità a istituzioni locali. Questo paradosso è l’aspetto che assume in Europa un paradosso globale. La situazione globale è il risultato di un processo contradditorio di unificazione e di disgregazione. L’era planetaria in cui ci troviamo ha reso interdipendenti tutte le società. Tutti gli esseri umani hanno in comune gli stessi problemi vitali e le stesse minacce globali. Tutti i grandi problemi oltrepassano le competenze degli stati nazionali. Tuttavia, siamo in un’epoca in cui gli stati nazionali non solo resistono, ma si moltiplicano e si miniaturizzano. Sono sia la piccolezza delle nazioni di fronte ai propri problemi, sia la piccolezza dell’Europa tutta di fronte alle grandi unità continentali a militare a favore del compimento politico del superamento metanazionale. Per l’Europa, le conquiste degli ultimi decenni oggi non appaiono più né scontate né irreversibili. Un futuro disgregativo appare possibile, addirittura probabile. Ma non è per nulla certo. Nessun futuro è certo. Noi europei dobbiamo voler essere arbitri del nostro destino. L’Europa metanazionale nasce dalla resistenza alla barbarie e dalla difesa della democrazia. L’Europa metazionale del 1945 era nata dalla resistenza alla barbarie nazista e dalla difesa contro la barbarie stalinista. L’Europa metanazionale del 1989 ha preso coscienza, con un certo ritardo, della rinascita della barbarie nazionalista e l’ha ugualmente rigettata. L’Europa dell’ultimo secolo è stata devastata non solo dalla barbarie che il progresso della civiltà non ha ancora saputo scacciare, ma anche dalla barbarie prodotta dal progresso stesso della civiltà.

Le nuove forme di barbarie scaturite dalla nostra civiltà non hanno ridotto le vecchie forme di barbarie. Anzi, le hanno risvegliate e si sono associate ad esse. Si è sviluppata una forma di barbarie razionalizzatrice, tecnologica, scientifica.
Questa nuova barbarie non solo ha consentito gli eventi devastatori delle due guerre mondiali, ma ha anche razionalizzato l’imprigionamento nei campi di concentramento, ha razionalizzato l’eliminazione fisica con o senza camera gas, ha razionalizzato la tortura. La resistenza contro la barbarie è per l’Europa d’oggi il nucleo di una comunità di destino che, dalle ceneri delle divisioni e dei conflitti europei, ci può consentire di generare dialoghi e diversità vissuti come fruttuosi e produttivi. Ma all’Europa provincia del mondo, all’Europa impegnata in una nuova metamorfosi, oggi si impone un passo ulteriore. Ciò a cui devono portare le tragiche esperienze dell’ultimo secolo è la rivendicazione che la barbarie sia riconosciuta pienamente per quella che è, senza semplificazioni o falsificazioni di alcun tipo.

Ciò che è importante non è il pentimento, è il riconoscimento. Deve passare attraverso la conoscenza e la coscienza. Dobbiamo sapere quello che è realmente accaduto. Dobbiamo avere coscienza della complessità di questa colossale tragedia. Questo riconoscimento deve concernere tutte le vittime. La barbarie ci minaccia, dietro le stesse strategie che sembrano opporvisi. Non dobbiamo dimenticare Hiroshima. L’idea che ha condotto a questa nuova barbarie è un’apparente logica, che metteva sulla bilancia i duecentomila morti dovuti alla bomba e i due milioni di vittime ipotetiche che sarebbero stati il costo del prolungamento della guerra con i mezzi classici. Queste cifre erano volontariamene contraffatte. Ma, peggio ancora, nella coscienza di numerosi americani, i giapponesi non erano che sub-umani, esseri inferiori... E infine, questo fatto di guerra contiene un ingrediente di barbarie supplementare: gli straordinari progressi della scienza messi al servizio di un progetto di eliminazione tecno-scientifico di una parte dell’umanità. Dobbiamo essere capaci di pensare la barbarie europea e mondiale per superarla, poiché il peggio è sempre possibile. Nel deserto minaccioso della barbarie, siamo attualmente sotto la protezione relativa di un’oasi.
Ma sappiamo anche che siamo nelle condizioni storico-politico-sociali che rendono il peggio immaginabile.

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