SOS ACQUA
19 Giugno 2022 - 05:00
Siamo rimasti letteralmente a secco, senz’acqua. E il prossimo inverno rischiamo di trovarci anche senza luce e senza gas. Un bel paradosso per la generazione che dispone delle tecnologie più evolute nella storia dell’umanità, la nostra. La verità è che, come certi nobili decaduti, viviamo in un palazzo lussuoso, ma non abbiamo i soldi per fare la spesa. Siamo smart, moderni e interconnessi, ma non ce la passiamo benissimo. Possiamo andare su Marte, ma fatichiamo a trovare i giusti equilibri sulla Terra. Siamo in grado di conversare con un amico dell’altra parte del mondo, guardandoci negli occhi attraverso lo schermo di un computer, ma rischiamo di restare chiusi fuori casa se si scarica il telecomando del portone d’ingresso. Sappiamo costruire un arto bionico, ma non riusciamo a sfamare un continente che muore letteralmente di fame. E si gonfia pericolosamente di rabbia.
Potremmo vivere in un mondo (quasi) perfetto e invece rischiamo di tornare indietro, se non al tempo delle caverne, poco ci manca. La domanda allora sorge spontanea: come abbiamo fatto a ridurci così? Come siamo arrivati a questo? Colpa di qualcuno o del destino cinico e baro? La risposta è scontata: colpa nostra e di chi ci governa (che poi è colpa nostra anche quella, visto che al Governo ci va chi scegliamo noi; nei Paesi democratici, quanto meno, funziona così).
Il peccato originale è sempre stato vivere preoccupandoci soltanto del presente, senza pensare alle conseguenze a medio o a lungo termine dei nostri comportamenti e delle nostre scelte. È successo con l’ambiente (per secoli abbiamo inquinato il pianeta, senza pensare ai danni che stavamo provocando, o ne abbiamo sfruttato le risorse, senza chiederci quando avremmo dovuto pagarne il conto; per decenni - diciamo pure dalla rivoluzione industriale in poi - quando non sapevamo dove mettere uno scarto di produzione pericoloso o ingombrante, abbiamo scavato una buca e l’abbiamo nascosto sottoterra anziché preoccuparci di smaltirlo…); ma è successo anche in tanti altri campi.
Per esempio, in economia, quando abbiamo accettato che la ricchezza si concentrasse in pochissime mani: oggi oltre la metà delle risorse finanziarie globali è controllata da una ristrettissima élite, l’uno per cento della popolazione mondiale; il 10% degli umani si spartisce l’85% del bottino totale e la stragrande maggioranza degli abitanti della Terra deve accontentarsi delle briciole, sotto la soglia della povertà o - nei casi più estremi - sotto la soglia della sopravvivenza.
Restringendo il campo all’Italia, due voci sono da tempo immemore fuori controllo: debito pubblico e previdenza. Nessuna classe politica si è mai chiesta cosa succederà quando i creditori busseranno alla porta e vorranno riscuotere tutte le cambiali che abbiamo firmato nel tempo. Allo stesso modo nessun Governo ha mai lesinato una baby pensione, una mancia elettorale o un reddito di cittadinanza, anteponendone la sostenibilità al facile consenso. Così, ora ci ritroviamo con un terzo degli italiani che vive a spese dello Stato (18 milioni di pensionati, che almeno se lo sono guadagnato, e 4 milioni di percettori del Reddito di cittadinanza); un altro terzo che dovrà lavorare fin quasi a 70 anni, anche se non ne può più, e l’ultimo terzo (i giovani) che non trova lavoro perché i posti sono occupati da chi magari non è più al passo con le nuove tecnologie e le nuove esigenze del mercato del lavoro, ma non ha maturato i requisiti minimi per mettersi a riposo.
Non bastasse tutto questo, ecco l’onda lunga della pandemia e la guerra in Ucraina. Dopo quasi quattro mesi di bombardamenti su Kiev e il Donbass, il risultato è il seguente: un quinto del Paese è stato raso al suolo (e se ne vanta pure, signor Putin?); quasi 7 milioni di ucraini hanno dovuto lasciare tutto (la propria casa, il proprio lavoro, la propria famiglia) e mendicano un riparo in terra straniera; un numero imprecisato di soldati e di civili sono morti; milioni di tonnellate di derrate stanno marcendo in quello che era il «granaio del mondo» e finiranno per provocare una tragica carestia a livello globale; a ogni latitudine il costo di gas, energia elettrica e carburanti è schizzato alle stelle, con la prospettiva di passare fra pochi mesi da un problema di prezzo a una guerra fratricida per l’approvvigionamento fra chi vorrà riscaldare le case, garantire i trasporti o far funzionare le industrie.
«Divide et impera», suggerivano i Romani. E proprio questa oggi è la strategia del nuovo Zar russo, che confida nelle divisioni e negli egoismi nazionali per spaccare l’Unione Europea e l’Alleanza Atlantica e arrivare a «un nuovo ordine mondiale governato da Stati sovrani forti», a partire naturalmente dal suo. La speranza è che i leader democraticamente eletti si dimostrino all’altezza della sfida e non cadano nella trappola dello spietato stratega russo e del suo interessato amico cinese, seduto sulla riva del fiume in attesa di veder passare i cadaveri dei nemici. Sperare è doveroso, scommetterci potrebbe essere un rischio.
Il primo banco di prova si avrà proprio in Italia, martedì, quando Mario Draghi relazionerà al Parlamento sul suo recente viaggio in Ucraina e sugli impegni presi a livello internazionale. A Kiev il presidente del Consiglio è stato perentorio. Ma qualche forza politica semina dubbi sull’opportunità di continuare a inviare armi a Zelensky e di infliggere sanzioni economiche a Putin. Più che il cessate il fuoco in Ucraina, il vero obiettivo dei «pacifisti» sembra essere il fronte interno: indebolire il presidente del Consiglio. E si torna al punto di partenza: qualcuno valuta mai le conseguenze a medio e lungo termine delle scelte che compie?
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