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LA TESTIMONIANZA

Intervista a Giorgio Bianchi: "Svegliato dalle bombe, io sono salvo, ma loro?"

L’ex portiere della Cremonese ha finalmente riabbracciato la famiglia dopo giorni nell’inferno di Kiev: il coprifuoco, la paura, le notti nel bunker dell’albergo.

Lucilla Granata

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redazione@laprovinciacr.it

02 Marzo 2022 - 05:30

CHIARI (BS) - «Mi ha svegliato il rumore delle bombe. Da lì tutto è cambiato». Nella sua villetta di Chiari, Giorgio Bianchi è arrivato da meno di 24 ore. Ti accoglie con un bel sorriso, anche se il volto è ancora segnato dalla stanchezza del lungo viaggio. È una bella giornata di sole e ora il freddo, la neve, la paura e la guerra di Kiev sono finalmente alle spalle: l’ex portiere e bandiera della Cremonese è finalmente con la sua famiglia. Ma non dimenticherà mai quello che ha vissuto nell’ultima settimana a Kiev, dove si trovava per lavoro. Bianchi era — sarebbe ancora, per la verità — il preparatore dei portieri dello Shakhtar Donetsk, una delle squadre più forti del campionato russo, presenza fissa in Champions League.

In Ucraina era approdato poco meno di un anno fa, scelto dal neo allenatore della squadra Roberto De Zerbi, per far parte del suo staff ed allenare i portieri. Tutto sembrava funzionare a meraviglia, con la squadra avevano anche vinto la Super Coppa, ma poi la situazione è precipitata.
Bianchi racconta come è andata: «È successo tutto molto in fretta. A Kiev non si percepiva un reale pericolo. La sera prima del primo bombardamento, le strade erano trafficate come al solito. I locali e i ristoranti pieni di gente. Poi le prime esplosioni nella notte ci hanno svegliato. Eravamo nelle nostre case e ci siamo sentiti al telefono con De Zerbi e il resto dello staff. Abbiamo deciso subito di trasferirci all’Hotel Opera di Kiev, dove eravamo soliti fare il ritiro con la squadra. Per stare insieme, ci sembrava più sicuro».


E nell’hotel l’ex grigiorosso, staff e squadra sono rimasti bloccati dal coprifuoco fino a domenica, quando hanno organizzato la ‘fuga’. «E non è stato per niente semplice. Sabato scorso abbiamo avuto anche un momento di sconforto quando ci hanno detto che almeno fino al lunedì ci sarebbe stato il coprifuoco totale. Chiunque fosse stato trovato per strada, sarebbe stato considerato una spia e gli avrebbero potuto sparare. Noi non dormivamo già più nelle stanze dell’albergo, ma tutti insieme in uno stanzone al piano seminterrato, un grande bunker. Eravamo quasi un’ottantina di persone. Noi dello staff tecnico e gli altri stranieri della squadra, i brasiliani. Quasi una trentina di persone in tutto. E poi giornalisti e membri delle forze di pace».


Poi, domenica, la svolta improvvisa. «È successo tutto in venti minuti. Ci hanno detto di prepararci che ci avrebbero portati via». Lo Shakhtar aveva disposto guardie armate pari al numero dei componenti della delegazione italiana. Una misura di sicurezza ritenuta necessaria nel caso in cui i russi fossero entrati in città e avessero cercato proprio gli stranieri per prenderli come ostaggi. L’ambasciata italiana aveva suggerito di non muoversi, ma ad intervenire in loro aiuto è stata la Federcalcio, che si è messa in contatto con la Uefa. Insieme, sono riuscite a trovare posto per il gruppo italiano su un treno in partenza dalla stazione Pasazhyrskyi di Kiev e con destinazione Mukacheve.

Un viaggio di 10 ore, in condizioni difficili, ma necessario per raggiungere il luogo più vicino al confine con l’Ungheria. «Quei due chilometri dall’albergo alla stazione sono stati i più pericolosi e anche quelli in cui ho avuto più paura. Eravamo allo scoperto in pieno coprifuoco e sapevamo che dalle case avrebbero potuto spararci. Speravamo che la scorta militare facesse capire che non eravamo nemici. Siamo partiti con le nostre tre macchine con altre due, una in testa e una in coda alle nostre, a farci da scudo. Alla stazione di Kiev c’era gente ma non tanta perché, appunto, eravamo in pieno coprifuoco. Ci hanno scortati fino al binario e poi è iniziato il viaggio verso il confine con l’Ungheria. Prima di salire sul treno un soldato ucraino mi ha detto: «Sorridi». Lui cercava di incoraggiare me, incredibile. Ho guardato fuori dal finestrino durante quel viaggio, ma fortunatamente vedevo solo neve e militari, non sparatorie o bombardamenti. E ho iniziato a sentirmi più tranquillo».

Da Mukacheve la comitiva ha dovuto prendere un pullman. L’unico modo possibile per passare la frontiera. Alla fine di una intera giornata di viaggio, il mezzo scortato dalle forze armate ha oltrepassato il confine con l’Ungheria. A quel punto i telefoni si sono potuti riaccendere. Il pericolo era definitivamente alle spalle. Dal confine, di nuovo in macchina, il gruppo ha raggiunto Budapest e il volo per l’Italia.

«È finita, per noi. Ma che ne sarà di loro? C’è un ragazzo, uno della nostra squadra, in un bunker con la moglie incinta. Ci ha videochiamato da lì. E un nostro magazziniere, invece di scappare si è arruolato. Cosa succederà adesso? Difficile dirlo. Di contratti e stipendi non sappiamo nulla. Ci hanno pagato il mese di febbraio, ma vedremo. Aspettiamo gli eventi. Sono aspetti secondari. Ho ancora là anche tutti i miei vestiti e le mie cose. Con me ho portato uno zainetto e la medaglia che abbiamo vinto in supercoppa. L’unico ricordo che mi rimane. Per il resto andrò a fare shopping, mettiamola così. I problemi sono altri. Sono preoccupato per chi è rimasto. Le persone che lavoravano lì, gli ucraini, erano molto spaventati. All’inizio si pensava che sarebbe finito tutto in due o tre giorni, ma è stato subito chiaro che non sarebbe stato così. È un popolo orgoglioso, quello ucraino. E sta resistendo. Kiev è una città di sei milioni circa di abitanti. Qualcuno è scappato, ma almeno tre milioni sono rimasti a combattere. I più cercano di portare moglie e figli al confine e poi rientrano per combattere per il loro paese. Avendola vissuta da là, la sensazione è che abbiano sottovalutato l’evolversi delle cose. La Farnesina a noi mandava messaggi perchè lasciassimo il paese, da giorni, ma il campionato non era sospeso. Non lo è stato fino all’ultimo».

Non dimenticherà, Giorgio Bianchi. «No, non scorderà facilmente quello che ho visto e vissuto. Sono contento di essere a casa, ma il pensiero va alle persone che ho conosciuto. Prego per loro e spero che riescano a mettersi in salvo»

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