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E' la prima traduzione italiana

'Four jazz lives', le mille vite degli improvvisatori

Gigi Romani

Email:

lromani@laprovinciadicremona.it

29 Aprile 2013 - 18:21

'Four jazz lives', le mille vite degli improvvisatori
Quattro vite jazz
di Alfred Spellman
Minum Fax
Pagine 267 - € 16
Alfred Spellman, critico musicale, giornalista e poeta, la vita dei jazzisti americani l'aveva studiata sul campo ed era apertamente schierato. C'è una ragione - afferma - per cui le case discografiche e i proprietari dei locali appaiono in queste pagine come i cattivi: perchè lo sono. Sono uomini d'affari e la prima cosa che guardano in un musicista è il potenziale commerciale. Che Dave Brubeck sia milionario mentre Cecil Taylor, Jackie McLean e Ornette Coleman dei poveracci è scandaloso: ma non è forse sempre stato così? E non è altrettanto vero che i problemi di droga di molti jazzisti erano causati proprio dalle condizioni di vita 'estremè che essi dovevano affrontare? 'Quattro vite jazz' uscì a metà degli anni '60 (questa è la prima traduzione italiana), quando negli Stati Uniti essere nero e musicista sembrava una categoria definita a priori: povero, emarginato, tossicodipendente. È il caso di Herbie Nichols (1919-1963, morto però di leucemia): pianista mitico, riscoperto negli anni '80 da audaci sperimentatori come Misha Mengelberg e Steve Lacy. Spellman pone il quesito centrale: i beneficiari dell'opera di un jazzista morto, critici o tardi epigoni, si riempiono le tasche ex post mentre il compositore ha fatto una vita d'inferno. Perchè, a differenza del musicista classico, le cui opere mai eseguite in vita (Webern) o che non hanno dato il giusto compenso (Mozart) rimangono comunque sugli spartiti per la gloria postuma degli autori, la situazione del jazzista è più delicata: il massimo cui possa aspirare è la registrazione fonografica, che non può catturare però il workshop continuo che ha portato a quella singola esecuzione cristallizzata su disco.

Drammaturgo, compositore, direttore e solista in uno, se lavora in condizioni penalizzanti non produce niente: deve creare un gruppo affiatato, i suoi musicisti imparano soltanto eseguendo e sperimentando le composizioni e l'esecuzione delle stesse sollecita cambiamenti ad ogni concerto (e questo vale soprattutto per improvvisatori radicali come Cecil Taylor, che infatti ha spesso optato per l'esibizione solitaria). La notazione jazzistica è parziale, aleatoria: l'opera si fa viva solo nella comunicazione con il pubblico. Nichols non riuscì mai a vivere della musica e fu costretto a innumerevoli lavori saltuari e malpagati: come Taylor e Coleman, che pure oggi godono di fama planetaria, da energici ottuagenari ancora sul palco, ma non disdegnarono l'insegnamento e attività più prosaiche come il lavapiatti. Non mancano aneddoti divertenti sulle vite jazz: come quando Jackie McLean, a corto di pianisti, chiamò all'ultimo momento Thelonious Monk (ormai famoso) per una serata: poco dopo il lunatico Sphere si presentò in giacca e cravatta, suonò tutta la notte e incassò un compenso di 12 miseri dollari. Senza fare una piega. I jazzisti erano abituati a tutto: anche a suonare gratis.
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