L'ANALISI
08 Aprile 2025 - 05:25
Il mondo «è attraversato da un crescente numero di conflitti che lentamente trasformano quella che ho più volte definito terza guerra mondiale a pezzi in un vero e proprio conflitto globale»: sono le parole pronunciate da papa Francesco nel tradizionale discorso di inizio anno al Corpo diplomatico quasi quindici mesi fa, ai primi di gennaio del 2024. Molti, all’inizio, pensarono che il pontefice stesse esagerando: ma oggi abbiamo droni iraniani che colpiscono le città ucraine, soldati nordcoreani che combattono nell’oblast di Kursk, Libano e Striscia di Gaza in guerra, mercenari russi in Sudan, reparti delle forze armate turche in Siria del nord e in Libia, i ribelli Houthi che dallo Yemen colpiscono Israele – o almeno tentano di farlo – e mettono a rischio il traffico marittimo mercantile nel mar Rosso, ‘l’Esercito di liberazione popolare’ di Pechino che si prepara senza farne mistero a operazioni anfibie su vasta scala… Viviamo dunque in «tempi interessanti», come dice un famoso proverbio cinese. O tempi terribili. Nessuno di noi, fino a pochi anni fa, avrebbe pensato di sentir parlare seriamente dell’impiego di «testate nucleari tattiche» sul campo di battaglia. Nessuno avrebbe pensato di vedere colonne di carri armati avanzare verso una capitale europea, per venire attaccate e respinte da un esercito regolare. O sbarramenti di artiglieria, trincee e campi minati, l’urlo delle sirene dell’antiaerea e corpi di civili bruciati e abbandonati per le strade di una cittadina a nord di Kiev.
E nemmeno di vedere prolungarsi per un anno e mezzo l’agonia di un popolo schiacciato tra l’incudine e il martello di due opposti estremismi, quello di Hamas e quello del governo di Bibi Netanyahu, in una guerra che sembra senza fine: 50.000 morti a Gaza di fronte ai quali il mondo non riesce a trovare la forza, o le motivazioni, per agire in maniera da porre fine alla strage. Ma questo è il nostro mondo: e noi italiani, noi europei, dobbiamo avere la capacità di affrontarlo, di comprendere le forze che stanno trasformando il Medio Oriente, le ombre che si addensano sul Mar della Cina, i tanti conflitti feroci che proseguono dal Sudan al Congo agli stati del Sahel.
Comprendere un mondo reso se possibile ancora più incerto e insicuro dal voltafaccia americano sull’Ucraina, che minaccia di premiare l’aggressore russo legittimando i vantaggi ottenuti grazie a una guerra di conquista, e dalla «mano libera» concessa da Washington a Israele per risolvere con la forza, se lo ritiene necessario, la «questione palestinese».
In questo orizzonte di conflitti e mutamenti, l’Europa, se vuole continuare a esistere come soggetto politico capace di offrire un contributo alla costruzione di un futuro migliore, deve non soltanto essere capace di «parlare con una sola voce», come si sente ripetere spesso, ma restare fedele ai valori che ha faticosamente creato e affermato dall’Illuminismo a oggi: il pluralismo, la tutela delle libertà individuali e collettive, l’equilibrio tra i poteri dello Stato, la difesa dei principi del diritto internazionale umanitario… Ma deve anche dotarsi di una credibile deterrenza militare. È inutile illudersi: forse gli Stati Uniti, tra quattro anni, inaugureranno una nuova fase di collaborazione con il vecchio continente, ma non ci si può far conto, e comunque la frattura causata dall’amministrazione attuale segna probabilmente un punto di non ritorno per quello che riguarda le responsabilità sulla sicurezza europea, le spese da sostenere, le decisioni da prendere in caso di conflitto. Come disse Churchill, «never waste a good crisis», «mai sprecare una buona crisi».
Siamo nel mezzo di una fase di cambiamento – questo credo nessuno lo possa negare – che pone l’Unione Europea (e non solo) di fronte alla necessità di fare delle scelte difficili.
Le opzioni sono sostanzialmente due: incrociare le dita e aspettare che passi la nottata, perché tra qualche anno la situazione potrebbe tornare ad essere più favorevole (ovvero più simile a quella degli ultimi ottant’anni), oppure tentare di provvedere da sola, in tempi brevi, alla propria sicurezza.
È stata scelta la seconda strada ed è stato approvato un robusto programma di investimenti 800 miliardi di euro in quattro anni (battezzato ReArm Europe e poi, meno bellicosamente, Readiness 2030); non c’è ancora accordo tra i vari paesi sulle modalità del suo finanziamento – prestito della BCE o deficit spending, essenzialmente – ma si finirà per trovarlo. La cifra complessiva stanziata è imponente, e non sarà semplice metterla a disposizione degli Stati, ma non è questo il vero problema.
Serve davvero riarmare l’Europa? Siamo minacciati da un nemico esterno? E come fare per spendere in maniera efficace questa somma enorme? Alla prima domanda mi sento di rispondere purtroppo sì: non solo serve, ma è necessario. Gli Usa non sono più disposti a spendere come in passato per la nostra difesa e dunque, giusta o sbagliato che sia, la loro decisione, dobbiamo provvedere da soli. Un soggetto politico-economico della statura della UE non può essere privo, come è oggi, di una credibile forza di difesa collettiva, pensa l’irrilevanza sulla scena politica mondiale.
Anche alla seconda domanda mi sento di rispondere sì, ma con una precisazione fondamentale: non dobbiamo temere un’invasione convenzionale russa, di cui spesso si parla a sproposito proprio per negare l’esistenza di qualsiasi altro tipo di minaccia; dobbiamo essere preparati invece ad affrontare azioni di hybrid warfare («guerra ibrida») ai nostri confini, ovvero la destabilizzazione di paesi «minori» — come le repubbliche del Baltico, la Moldavia o i paesi balcanici – attraverso atti ostili che si mantengano, almeno inizialmente, al di sotto dell’orizzonte della guerra aperta. Dunque il pericolo esiste, e il programma di riarmo deve essere finalizzato non certo ad aggredire la Russia, ma a scoraggiarla da tentare altre avventure, altre «operazioni militari speciali» in paesi che una volta facevano parte dell’impero prima zarista e poi sovietico, mentre adesso sono parte dell’UE, o suoi alleati.
Alla terza domanda è più difficile dare una risposta semplice. Per contrastare azioni di hybrid warfare serve prima di tutto un cambiamento di mentalità: prontezza nel valutare realisticamente il pericolo, flessibilità nel reagire in maniera efficace; serve poi un coordinamento a livello europeo di tutte le agenzie di sicurezza e informazione, che dovranno essere dotate del personale e degli strumenti tecnologici necessari ad operare nella «zona grigia» dei conflitti non dichiarati. Per scoraggiare azioni ostili convenzionali bisogna possedere invece forze armate in grado di far pagare troppo cara a un avversario qualsiasi violazione del territorio di uno stato europeo. Come riuscirci? Più effettivi e migliori armamenti, ovviamente: ma visto che ancora non esiste un esercito europeo, e non si può aspettare fino al momento in cui vedrà (forse) la luce, è necessario spendere adesso per irrobustire le forze armate dei singoli paesi che fanno parte dell’Unione. Bisogna farlo però sulla base di una strategia comune sia nel campo della produzione industriale, sia del futuro impiego dei mezzi e del personale, che deve essere difensivo e dissuasivo. La strada per arrivare alla auspicata Readiness 2030 («prontezza 2030») non si presenta né facile né breve: ma non ci sono alternative se si vuole essere capaci di sostenere con strumenti efficaci una politica europea finalizzata alla protezione della libertà delle democrazie.
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