L'ANALISI
11 Febbraio 2025 - 05:20
Regaliamo Sanremo. Offriamo, doniamo, devolviamo il Festival. Scusa se lo dico a poche ore dall’inizio, ma con le illuminazioni bibliche succede così: ti prendono quando non te le aspetti. E io ne sono stato folgorato sulla strada per l’Ariston. Di fronte alle mille emergenze che affliggono lo sfortunato pianeta a cui tocca ospitare il genere umano, una nazione prospera come la nostra (perché sia chiaro che noi siamo prosperi, lo ha detto il telegiornale) è chiamata a donare il meglio che può alle popolazioni meno fortunate.
Come dici? Che anzitutto bisognerebbe pensare ai generi di prima necessità? Perché, Sanremo non è forse un genere di primissima necessità per noi italiani? Non è forse questo il fulcro del nostro anno, non sono forse i cinque giorni sanremesi le autentiche ‘cinque giornate’ dell’annuale risorgimento nazionale, in cui con periodico orgoglio rivendichiamo la nostra identità più profonda? I giorni in cui Sanremo diventa la nostra Capitale, in cui l’Ariston eclissa la Casa Bianca, il Cremlino e la Città Proibita messi insieme, in cui la ridente cittadina ligure condivide con generosità la propria ridente natura facendo ridere (scusa, volevo dire sorridere) l’Italia tutta? Altra possibile obiezione: regaliamo cinque giorni felici, va bene, ma poi dopo la fuggevole ebbrezza in quelle lande desolate si tornerà alla miseria di prima. Guarda che in Italia il problema lo abbiamo già risolto, adesso la copertura è più completa di quelle che promettono le assicurazioni.
Cinque giorni dura il Festival, sugli altri trecentosessanta sono spalmate senza soluzione di continuità celebrazioni dell’edizione appena finita e anticipazioni della prossima sapientemente centellinate: in tutto fa trecentossessantacinque giorni tondi, un anno intero vissuto in felice stato di ebbrezza sanremese. E quando arriva l’anno bisestile, il giorno 366 lo si riempie non restando insensibili al grido di dolore del cantante di turno che commuove l’Italia con la sua accorata protesta perché la portinaia gli ha detto che le hanno detto che lui rischia di essere escluso dalla prossima edizione.
Certo, molti fortunati Paesi esteri non hanno bisogno di regali dato che già possono splendere di luce riflessa grazie a televisione e streaming. Già, ma le popolazioni prive di tivù o tablet? A tutti i loro problemi vogliamo aggiungere anche questa privazione? E poi, vuoi mettere l’emozione degli spettacoli dal vivo? No, basta con l’egoismo, basta con le scuse, diamo il nostro contributo a migliorare il mondo, siamo per una volta di manica larga.
Ci vuole un Piano Marshall culturale, tu chiamalo se vuoi ‘Piano Conti’, e noi giusto questo abbiamo da offrire. Imbarchiamo tutti quelli che fanno il Festival, cantanti (mi raccomando di non dimenticarsi a casa l’aggeggio che ci mette una pezza quando stonano), orchestra, vallette, conduttore co-conduttori co-co-conduttori e co-co-co-conduttori, e facciamogli fare tutti insieme un Festival itinerante in tutti i posti del mondo in cui infuriano guerra, povertà, malattia, ignoranza, degrado, riscaldamento globale (anche se questo, come dice l’uomo più potente e quindi più intelligente del mondo, è una balla).
Mal che vada, non peggioreremo troppo la loro situazione e miglioreremo la nostra (per via della coscienza a posto, cosa avevi capito?). Adesso tu dirai: questo fa il furbo, sotto sotto è uno di quelli che snobbano il festival. Smentisco sapendo di smentire. Io con il festival ci sono più o meno cresciuto insieme, lui ha appena quattro anni più di me, mica un abisso. E almeno ai primi tempi, avere a che fare con lui è stato uno spasso.
Prendi gli urlatori, che alle orecchie di adesso suonano come vecchi carillon ma ai timpani di allora, sintonizzati su parlami d’amore Mariù, facevano l’effetto di uno choc. E il mio primo idolo l’ho trovato lì, il pittoresco Joe Sentieri che alla fine della canzone faceva un saltello. E gli americani, come Gene Pitney e Paul Anka, che cercando di cantare in qualcosa di simile all’italiano facevano smorfie da film di Jerry Lewis. E i quattro più quattro di Nora Orlandi, che deve essere stato il maestro Manzi a inventargli il nome sperando che così qualche spettatore ripassasse le addizioni.
Poi i primi capelloni, Mike Bongiorno li presentava con l’aria contrita del papà che porta a scuola il figlio discolo che il giorno prima era finito dal preside, e fra l’altro si vedeva benissimo che qualcuno di loro non aveva avuto tempo di aspettare che gli crescessero i capelli e si era ficcato in testa una parrucca, e vedo ancora mio nonno che squadra i Rokes e gli altri zazzeruti componenti dei ‘complessi’ (‘lendenùus’, li chiamava lui, non ho mai osato chiedere cosa volesse dire ma escluderei che fosse un complimento) come Cavallo Pazzo che mira alla lunga chioma di Custer, con una voglia matta di aggiungerla alla sua collezione di scalpi.
Era un Sanremo un po’ ruspante, lo si aspettava perché insieme alle rare partite di calcio europeo era una delle poche occasioni in cui si allentava un po’ la rigida disciplina dell’a letto dopo Carosello. Di quel Sanremo in bianco e nero non mi vergogno di avere perfino nostalgia; con la sua ingenuità a cui quell’Italia aveva ancora diritto; con le sue canzonette che quando erano orecchiabili - così orecchiabili che la mattina dopo le sentivi fischiettare per strada dai garzoni - avevano già fatto il loro dovere, senza sentirsi in dovere di contenere ‘messaggi’; con i suoi colori che la tele ti lasciava libero di immaginarti usando i pastelli della fantasia; con i suoi conflitti generazionali, che quando cantava Claudio Villa i miei nonni se lo mangiavano con le orecchie mentre io avrei cambiato canale al volo, se fosse esistito un altro canale.
Ed era un evento sul serio, che la mattina le vecchiette ne discutevano, Bobisolo el mè piasìt tant, no me preferisi la Cinquetti, me supòrti mia Celentano, e intanto ti passavano davanti nella fila dal fornaio. Poi siamo cambiati. Io e lui. E come succede fra vecchi compagni di giochi che prendono strade diverse ci siamo persi di vista. Io ho cambiato musica. In meglio. Lui ha cambiato musica. Non in meglio.
E ha incominciato a spingere la musica sempre un po’ più a margine della scena, a metterle davanti e sopra troppa altra roba che non c’entra; colpa anche sua, della canzonetta italiana, che faceva troppo poco per difendere il suo posto, mettendosi a correre dietro alle mode come fa chi non ha più niente da dire. Ed è un pezzo che ai garzoni, se ne esistessero ancora, toccherebbe cercarsi da altre parti qualcosa da fischiettare alla mattina.
Non ce l’ho con lui, al contrario sono un po’ triste per lui, perché sembra una di quelle attrici non più giovani che non accettano la legge del tempo, lui pretende al contrario di essere ogni anno più giovane, e per chi ha una certa età questa è la ricetta per diventare un po’ patetici. Certo, parere personale. Ma quando si accorge che il gentile pubblico ormai mentre applaude i suoi giochetti soffoca uno sbadiglio (non solo perché fra prefestival festival e dopofestival si tira l’alba), un prestigiatore deve trovare il coraggio di cambiare scena, di cercarsi magari nei teatri di provincia un pubblico ancora capace di sgranare gli occhi davanti ai suoi vecchi trucchi.
E allora insisto, con la coscienza a posto: su, liberiamoci (scusa, volevo dire ‘priviamoci’) di Sanremo, ce lo siamo goduto per tutti questi anni, adesso apriamogli la gabbia, che possa cercarsi un futuro vero e non artificiale. Inventiamogli un Ariston itinerante, con il quale magari ritroverà montagne verdi e cieli sempre più blu, e se vorrà sapere il suo destino si troverà una zingara, se avrà qualcuno da commuovere gli farà spuntare una lacrima sul viso, e se ha ancora le ali le userà per volare, oh oh...
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Data di inizio 6 settembre 2025 - 20:30
L’iniziativa si inserisce nel programma del Cremona Summer Festival
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