Roma, il Medioevo, i fasti e i nefasti della città ebbero sempre come punto centrale la piazza maggiore, la piazza del Comune. A tratteggiarne la storia, da par suo, ci pensò in un bellissimo saggio per i tipi dell’Adafa il professore Ugo Gualazzini. Con grande chiarezza lo storico racconta che: «Il lato orientale delle mura romane di Cremona passava, con direzione nord-sud, proprio nell’area attualmente adibita a piazza». Gualazzini inoltre si basava anche sull’osservazione dell’esistente: «Nello spazio aderente alle mura in città si trovava una larga strada, della quale tutti possono ancora ammirare un pezzo, sotto il palazzo della Borsa Merci in via Solferino. Naturalmente ne è rimasta una porzione. Essa doveva proseguire lungo tutto il tratto di mura, quindi anche nell’area della piazza. Secondo le regole seguite dagli architetti militari romani, infatti, ogni via immediatamente intramurale doveva essere di dimensioni maggiori di quelle della città, essendo l’una destinata a servire i combattenti sulle mura, le altre il traffico cittadino». La città murata dunque aveva, secondo le leggi e le consuetudini romane, un particolare status giuridico. In particolare Gualazzini segnala che: «Non vi si potevano seppellire cadaveri, e non tanto per ragioni igieniche, quanto per non contaminarne la puritas, cioè quella immunità sacrale dell’ambiente che consentiva l’adempimento di certi riti». Nella platea infatti venivano celebrati i sacrifici agli dei, una pratica che per i romani copriva una funzione oltre che religiosa sociale: il rito era un collante della comunità, e la piazza era il luogo sacro per eccellenza, tant’è che anche nei secoli successivi mantenne questo ruolo. «Nel 554 d.C. Giustiniano, con una famosa prammatica — scrive Gualazzini — attribuì ai vescovi poteri civili, in modo che essi potessero affrettare la riorganizzazione politica ed economica delle terre così duramente provate dalla riconquista bizantina. E anche nella nostra città furono rispettate quelle disposizioni. Come in altre città, il vescovo di Cremona pensò di far isolare dal resto dell’abitato l’area sulla quale erano la sua casa e gli altri edifici sacri, o adibiti al culto, o al servizio dello stesso, e diede vita alla munitiuncula, o piccolo fortilizio, a difesa dai malintenzionati, fossero bande di pagani, cioè di non cristiani che, in genere provenienti dall’Oriente europeo, saccheggiavano le terre occidentali, oppure cives cremonesi, malcontenti della politica vescovile ». Tutto ciò era possibile perché il Po si era ormai ritirato e aveva lasciato asciutte, o quasi, vaste zone. E quella parte di sponda che un tempo più apertamente dominava il fiume fu utilizzata dai cristiani per la costruzione dei maggiori edifici di culto. È l’area sulla quale ora sorge il duomo, già fuori dalle mura romane. «Ma il vescovo nell’alto Medioevo non si accontentò di circondare di mura quella zona — racconta Gualazzini — ma estese la diretta difesa della sua città, cioè della sua civitas. Al lume di queste poche nozioni possiamo comprendere il significato di una frase contenuta in un diploma dell’imperatore Ludovico III al vescovo di Cremona Landone, diploma datato da Pavia 12 maggio 912, nel quale fra le altre concessioni fatte o riconfermate alla Chiesa cremonese, nella persona del suo capo, vi era anche quella di ‘due torri della città di Cremona, site vicino alla muniziuncola del vescovo, legittimamente eretta, e dell’esercizio della stessa giurisdizione giudiziaria, attuato materialmente nella stessa muniziuncola’. Quindi sono ben distinte nell’atto la muniziuncola, le mura turrite della città e le facoltà giurisdizionali attribuite al capo della diocesi ». Inizia così per la città il lungo periodo del potere vescovile, del resto la dissoluzione dell’impero già da secoli aveva fatto assurgere i vescovati come punti nevralgici del potere cittadino e non solo. Una vicenda che avrà il suo epilogo nelle lunghe lotte per l’autonomia prima della classe nobiliare e poi dei ‘populares’.
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