L'ANALISI
30 Dicembre 2025 - 05:25
«Il popolo può essere sempre assoggettato al volere dei potenti. È facile. Basta dirgli che sta per essere attaccato e accusare i pacifisti di essere privi di spirito patriottico e di voler esporre il proprio Paese al pericolo. Funziona sempre, in qualsiasi Paese». Queste parole pronunciate al processo di Norimberga da Hermann Göring, il principale luogotenente di Hitler, raccontano una strategia. Ciclicamente si ripresenta. Chi ha il potere cerca di assoggettare i popoli per fargli digerire qualsiasi guerra. Il metodo si basa sul principio di dare un colpo al cerchio e uno alla botte. Il cerchio è la costruzione del nemico attraverso una predicazione ad hoc: il Paese è a rischio di attacco. La botte comporta la diffamazione dei pacifisti, ritenuti privi di patriottismo e quindi disfattisti. Le guerre si sostengono su falsità, menzogne costruite ad arte. La sfida è smascherare tali strategie. Oggi ci sono anche sistemi economici ben strutturati: prevedono ingenti investimenti negli arsenali bellici, compresi ordigni nucleari di nuova generazione; assoldano la ricerca scientifica e tecnologica, spostando finanziamenti da settori civili e sanitari al campo militare; convertono le industrie in crisi offrendo facili prospettive occupazionali nel ramo della difesa; espongono facce rassicuranti in tivù e sui social, che pontificano circa la necessità del «si vis pacem para bellum» e della deterrenza, panacea di tutti i pericoli. Le Chiese in Italia hanno pubblicato una Nota pastorale dal titolo provocatorio: ‘Educare a una pace disarmata e disarmante’.

Intendono educare a tutt’altra prospettiva. Affermano che «l’educazione è determinante per una vera conversione alla pace». Con l’aria che tira, non deve meravigliare che il documento nasca per aiutare le coscienze al discernimento. Era già successo nel 1998, con la Nota ‘Educare alla pace’. Ora l’intera Conferenza Episcopale Italiana ha riproposto l’urgenza della questione, specificando lo scopo: non si tratta di promuovere una pace qualsiasi, ma «disarmata e disarmante». Come a dire, non si può parlare di pace se non passando attraverso il disarmo. Dei cuori, delle menti e delle mani. La pace richiede scelte educative: quando mancano, c’è il vuoto. Come un corpo disidratato. Come polmoni senz’aria. Ci siamo diseducati alla pace. I segni sono molteplici, in primis la globalizzazione dell’indifferenza per le vittime civili delle guerre, il cui grido trova sempre di più senso di impotenza. Assistiamo a un’escalation di spese militari con contraddizioni impressionanti. Lo denuncia anche papa Leone XIV nel Messaggio per la Giornata Mondiale della pace (1° gennaio 2026): «Nel corso del 2024 le spese militari a livello mondiale sono aumentate del 9,4% rispetto all’anno precedente, confermando la tendenza ininterrotta da dieci anni e raggiungendo la cifra di 2.718 miliardi di dollari, ovvero il 2,5% del PIL mondiale». C’è anche un silenzio persistente sulle conseguenze ecologiche del riarmo, soprattutto se accresce la minaccia nucleare che promette disastri devastanti per il pianeta. I nazionalismi sono in grande spolvero: guadagnano consenso proprio intorno al concetto di difesa della patria, che giustifica la corsa agli armamenti e fomenta l’ostilità verso gli stranieri e le minoranze religiose in nome del primato dell’identità. La violenza è esibita in tutte le salse, da quella verbale a quella politica, e c’è persino chi vuole la discesa in campo delle religioni. Antisemitismo, islamofobia e cristianofobia non appartengono al passato, ma attecchiscono nel brodo di coltura del pregiudizio. Nell’aria che respiriamo c’è tanfo di odio, che trasuda dai pori della comunicazione ed è alimentata dai mercanti della guerra… Giovanni XXIII nell’enciclica Pacem in terris (1963) chiedeva di impegnarsi a dissolvere la «psicosi bellica» (PT 61) e invocava un «disarmo integrale». Chi non si è accorto del clima guerrafondaio che ci avvolge? La fede cristiana ci tramanda altro. Il Dio biblico è amore, nonostante il peccato e nonostante le vicende umane sembrino far prevalere la violenza. Nella Scrittura non mancano racconti di perdono, annunci di pace, messaggeri di nonviolenza. In Cristo non ci sono più «stranieri e nemici» (Col 1,21) e Gesù in croce rende concretamente presente un progetto di riconciliazione. Egli «è la nostra pace» (Ef 2,14). Scrivono i vescovi: «La pace di Cristo è diversa da quella che dà il mondo, perché non è frutto di ragionevoli compromessi o rapporti di forza, ma ha origine nel riconoscimento che ogni persona è figlia di Dio, in una fratellanza/sororità estesa anche al nemico». Dio non smette di amare l’umanità e non cessa di offrire la sua pace al mondo. Ecco, dunque, la necessità di superare il tradizionale teorema della «guerra giusta», sia perché il percorso magisteriale va in questa direzione, sia perché occorre assumere definitivamente la consapevolezza che le guerre attuali (ibride, tecnologiche e nucleari, combattute con droni, laser, satelliti, IA…) non sono più in grado di rispettare alcun criterio di proporzionalità tra il male che si provoca e la pace che si vorrebbe. Non c’è limite al peggio e le conseguenze sono devastanti per i civili e per l’ambiente. I nazionalismi si presentano come i più grandi difensori della cittadinanza, mentre invece seminano isolamento e solitudine. La corsa agli armamenti è più esercitata della diplomazia. Si giustifica la deterrenza perché non si è in grado di promuovere la grammatica del dialogo. Tutto ciò chiede un nuovo pensiero sulla guerra, che la consideri nella sua drammaticità e nell’impatto concreto sulle coscienze. Le distruzioni e le uccisioni non avvengono mai a cuor leggero, perché lasciano dietro di sé strascichi di morte, sete di vendetta, depressioni interiori e sofferenze sociali. L’urgenza è custodire la pace. Si tratta di realizzare una grande attività educativa per aiutare le persone ad aver cura della propria umanità. La guerra disumanizza. Paolo VI nell’ottobre 1965 all’ONU lo aveva riconosciuto: «Le armi ancora prima che produrre vittime, generano cattivi sogni, alimentano sentimenti cattivi, creano incubi, diffidenze e propositi tristi, arrestano progetti di solidarietà e di utile lavoro, falsano la psicologia dei popoli». Occorre agire ora per formare coscienze, rendere consapevoli le comunità. Alla pace ci si allena quotidianamente. Si vive in famiglia, nei luoghi di lavoro, a scuola, nella politica, nei condomini, nelle città, nelle parrocchie... e poi sarà pace anche tra i popoli. La nonviolenza attecchisce solo in un contesto di dialogo vissuto. Non si improvvisa. Madre Teresa di Calcutta era convinta che abbiamo bisogno di imparare a stare insieme più che produrre armi. Le relazioni generano capolavori. La nonviolenza attiva, nel momento in cui chiude lo spazio all’uso delle armi, diventa il campo aperto della fantasia umana. Fa intendere che il perdono non è una bestemmia, non è la scelta dei deboli, ma il piccone che apre sentieri di futuro. «La pace è dunque un lungo percorso, perché è sfida complessa, impegno che tocca molte dimensioni della vita personale e sociale e che chiede un discernimento attento» conclude la Nota. Non spaventa la lunghezza del cammino, ma la mediocrità che impantana nelle sabbie mobili della violenza. Ogni comunità può diventare artigiana di pace. Disarmata e disarmante.
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