L'ANALISI
08 Aprile 2025 - 10:23
CREMONA - Era una sorta di estasi fisica e intellettuale che travolgeva lo spettatore davanti agli spettacoli/mondo di Roberto De Simone, musicologo, compositore, regista, antropologo, studioso delle tradizioni popolari, intellettuale europeo, scomparso a 91 anni tra gli affetti familiari nella sua grande casa rifugio di via Foria a Napoli. Non sarebbe lo stesso, oggi, il racconto di Napoli, se nel 1967 il maestro formatosi al conservatorio di San Pietro a Majella, non avesse fondato e forgiato la Nuova Compagnia di Canto Popolare: una rivoluzione che unirà musica alta e popolare nata dall’incontro dello studioso di culture arcaiche meridionali con Eugenio Bennato, Giovanni Mauriello, Peppe Barra, Patrizio Trampetti, Fausta Vetere, Carlo D’Angió.
Dire di De Simone è dire di un intellettuale raffinatissimo e coltissimo che non smise mai di sporcarsi le mani col teatro, perché la cultura, quella vera, ha bisogno di corpo e di sangue, di voce e di musica. Tutto questo è chiaro fin da subito e, soprattutto, dal debutto, nel lontano 7 luglio 1976 dell’opera Gatta Cenerentola, ispirata a una fiaba di Basile, che debutta al Festival dei due Mondi di Spoleto. Proprio all’indomani della messinscena di Re Chicchinella di Emma Dante al Ponchielli, l’addio a Roberto De Simone non può che far venire in mente la messinscena della sua Gatta Cenerentola nel massimo teatro cittadino nel 1999, un omaggio alla grande tradizione partenopea, un viaggio nella cultura barocca.
«Nella favola in musica composta da Roberto De Simone ci sono recitativi di stile barocco, il recupero della tarantella, la dissacrante parodia al maschile del recitar un rosario del tutto laico, il canto-gioco che ha l’incalzante ritmo del ditirambo greco — si ebbe occasione di osservare —. Nel rutilante ed eccitato gioco di rappresentazione costruito con l’intreccio delle fonti alte e basse di una cultura che è cultura della gente di Napoli i punti di riferimento si perdono, la narrazione della vicenda della Cenerentola di Basile viene narrata e vissuta al tempo stesso».
Due anni prima, nel 1997, a portare lungo le sponde del Po l’arte immensa della Napoli barocca e popolare di De Simone fu il teatro Comunale di Casalmaggiore, diretto da Beppe Romanetti, con L’opera dei centosedici, un lavoro complesso, in cui gli ultimi di Raffaele Viviani dialogavano con i mendicanti delle ‘Mille e una notte, della ‘Beggar’s Opera’ di John Gay o nei ‘Miserabili’ di Victor Hugo, in una serie di rimandi dotti e densissimi che lasciarono gli spettatori senza fiato, chiamati a confrontarsi in un sol tempo con la tragedia greca e il varietà di Totò, la sceneggiata ma anche le ‘sacre rappresentazioni’ di una devozione tutta popolare a metà fra superstizione e fede.
A ripensarci, fu dolce il naufragar in quel teatro denso di lingua e di musica, denso di corpi e di spazio occupato in tutta la sua facondia barocca che si ritrovò nel 2000, sempre a Casalmaggiore, nella più fruibile L’opera buffa del Giovedì Santo. E fu, ancora una volta, uno di quegli spettacoli destinati a far ammutolire lo spettatore plaudente perché si ritrovava talmente pieno di suggestioni, sollecitazioni intellettuali che il miglior commento era un silenzio estatico.
Ed è ancora sulle sensazioni e sullo strabocchevole intreccio di citazioni alte e basse, legate alla storia settecentesca di Napoli capitale e alla miseria cenciosa nei suoi quartieri che ci si arenò e sembrò quasi fare un torto all’arte tentare di sbrogliare ciò che parlava più al cuore, meglio alla pancia che all’intelletto. Si dice tutto questo, guardando alle tre messinscene giunte dalle nostre parti come creazioni di un mondo non solo partenopeo, ma di un’antropologia musicale e teatrale che affonda le radici nell’humus dell’uomo, senza distinzione di latitudine né di cultura in un mix di parola e musica che rimane per certi versi unico e irripetibile. E si dice tutto ciò pensando a De Simone che non lasciò mai Napoli, la città dove era nato il 25 agosto del 1933. All’artista partenopeo è spettato il compito di metterci al cospetto dell’eternità che è in noi, è nei nostri riti culturali, è in fondo nel teatro.
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