L'ANALISI
24 Febbraio 2025 - 12:04
Le quattro danzatrici di Die Grosse Fugue (FOTOLIVE/Paolo Cisi)
CREMONA - Una ventina di minuti possono essere sufficienti per dare vita a un piccolo capolavoro, a una gemma preziosa, a un gesto creativo che regala al tempo stesso bellezza e pensiero. Grosse fugue, in scena al Ponchielli sabato sera per la stagione di danza, è l’incontro perfetto tra una meravigliosa partitura musicale di Ludwig van Beethoven, che Stravinskij ha definito «il perfetto miracolo di tutta la musica», e la coreografia di un’artista, Maguy Marin, che la danza ha saputo disarticolarla e ricomporla, sempre alla ricerca di una sperimentazione mai fine a sé stessa.
Fondale nero, luci praticamente fisse, in scena quattro danzatrici vestite di rosso, uguali ma diverse, in sintonia ma non troppo, di rado sincrone. Matilde Gherardi, Fabiana Lonardo, Giorgia Raffetto e Alice Ruspaggiari disegnano lo spazio e se ne appropriano. Ed è la loro dissonanza a dare dinamismo ed energia all’azione, che è sì di gruppo ma mai corale. Si muovono in geometrie variabili, spesso scomposte e aspre. Ciascuna delle interpreti balla da sola, incontra e scontra le altre. Con una ruvidezza di fondo nei gesti, le danzatrici talvolta arretrano e a volte addirittura cadono, sempre pronte tuttavia a rialzarsi e a ricominciare. Danzano la vita come sanno farlo le donne: con ostinazione e resilienza, mai dome. Il rosso dei costumi (Chantal Cloupet) è energia, passione, fuoco, eros.
Ed il colore delle vesti delle ancelle di Margaret Atwood o delle panchine o scarpe con cui le donne chiedono sia messa fine alla violenza contro di loro. Marin - massima esponente della ‘nouvelle danse’ francese e maestra del teatro danza, nonché intellettuale che si spesso espressa su temi politici e civili - con Grosse fugue ha indagato ancora una volta il rapporto tra musica classica e danza contemporanea, tra i codici del passato e i gesti del presente. E lo ha fatto scegliendo un’opera - Di Grosse Fuge n. 133 - che ai contemporanei di Beethoven risultò ostica perché troppo moderna.
La musica è eseguita dal vivo dagli Archi di Cremona, versione quartetto (nella foto qui sopra): Giacomo Invernizzi (primo violino), Gian Maria Lodigiani (secondo violino), Vincenzo Starace (viola) e Gregorio Buti (violoncello), ed è un’aggiunta preziosa e non solo perché l’esecuzione è magistrale. La presenza dei musicisti in scena evidenzia ancora di più quanto le ballerine in qualche modo incarnino ciascuna uno strumento. E se a ogni nota corrisponde un gesto, un passo ben si comprende come la lor individualità venga esaltata per dare vita al tutto. E allora bastano davvero venti minuti per un capolavoro, per una sferzata di energia e coinvolgimento.
Il dittico proposto dalla MM Contemporary Dance Company di Michele Merola (fra i migliori gruppi internazionali di danza contemporanea) si è concluso con Elegia di Enrico Morelli (nella foto sopra), riflessione sull’oggi e sul nostro smarrimento esistenziale.
Oltre alle quattro ballerine interpreti di Grosse fugue, sono in scena anche Lorenzo Fiorito, Mario Genovese, Nicola Stasi e Giuseppe Villarosa. Quest’ultimo è autore della musica elettronica che dialoga con Chopin, eseguita dal vivo sempre dagli Archi di Cremona e da Diego Maccagnola al pianoforte.
A sottolineare una condizione umana segnata dal dubbio e dall’incertezza ci sono i versi di Mariangela Gualtieri, sussurrati, ripetuti, talvolta solo farfugliati dalla voce di Isidora Balberini. Il gesto di Morelli è elegante, i corpi sembrano trovare quiete l’uno nell’altro e l’idea di fondo è un invito alla speranza. Pur nell’assoluta gradevolezza dell’insieme, la coreografia ha un che di troppo, un che di manierista accentuato dalla scelta di porre l’azione sotto un cielo di stelle (disegno luci di Carlo Cerri) che, a nostro parere, pone un velo di eccessiva artificiosità sull’insieme. Sono comunque applausi, applausi e ancora applausi.
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