L'ANALISI
10 Settembre 2024 - 05:25
Un diciassettenne, Riccardo, uccide il fratellino e i genitori. Una famiglia eliminata in un colpo solo dalla furia omicida di un adolescente che non ha mai evidenziato particolari problemi. Il tutto nel cuore della regione più ricca d’Italia. Un ragazzo perbene in una famiglia perbene. C’è solo sgomento e incredulità. Cosa è successo? Caino ha di nuovo colpito. La Bibbia ci insegna in un racconto archetipo che il primo omicidio è familiare e non vede protagonista il cattivo straniero. Chi ha conosciuto Riccardo non lo dipinge come un violento o un mostro. Sarebbe troppo comodo! La pruriginosa ricerca di capri espiatori ci risolverebbe subito la questione.
In realtà le cose sono molto più complesse. O delicate. Così si resta attoniti. Senza parole. Davanti al mistero del male non contano troppe parole. Facile percorrere la strada del moralismo, suscitando sensi di colpa. Con saggezza don Claudio Burgio, cappellano del Beccaria, dove il giovane è detenuto, ha invitato a sospendere il giudizio. Facciamolo. Tuttavia, sia consentita una riflessione. Riccardo ha dichiarato di essersi sentito un corpo estraneo nella famiglia. Voleva liberarsene. Il gesto fisico dell’omicidio plurimo è agghiacciante. Rimangono però le domande radicali della vita: come gestire i conflitti (interiori ed esteriori)? C’è posto per i miei limiti se gli altri sono «troppo perfetti»? La vicenda fa riflettere. Nell’apparente paradiso scoppia l’inferno. In questo e in molti altri casi di disagio giovanile visibile, presunto o apparente, si pone la questione delle nuove generazioni.
In alcune città sono tornate le baby gang. Non mancano forme di violenza gratuita, di accoltellamenti, di bullismo, di insulti senza senso. Un amico mi raccontava di essere stato avvicinato da un gruppo di ragazzotti che lo hanno apostrofato «vecchio di m...» solo per il fatto di averlo incrociato per strada. Anche a noi preti capita di sentire insulti simili o derisioni se ci troviamo a tiro di qualche baby gang. Il malessere giovanile merita tutta la nostra attenzione. Nessuno può chiamarsi fuori e fare il furbetto. Sono in gioco le agenzie educative, che non godono di ottima salute. Famiglia, scuola, associazioni, parrocchie, oratori, ambienti sportivi sono in crisi. I giovani disertano. In molte parrocchie sono «non pervenuti» ma non c’è allarme che squilla.
Si va avanti come se nulla fosse. Invece, la chiusura delle attività di un oratorio dovrebbe essere vissuta come un lutto cittadino. Viceversa, l’apertura di un luogo educativo andrebbe salutata con una festa pubblica. Se ciò non avviene, c’è di che preoccuparsi. Solo i superficiali possono fingere di niente. Forse è il caso di tornare ai fondamentali del vivere. Mi permetto di segnalare tre punti su cui impegnarsi insieme. Il primo dato è lo spaesamento dei ragazzi. Quando Riccardo dice che si sentiva un corpo estraneo, non è forse quello che avvertono tanti giovani nella società? La pandemia ha evidenziato ancora di più il malessere che proviene dalla «solitudine lancinante» (Eraldo Affinati), dall’abisso di isolamento in cui vivono.
Il paradosso è che sono connessi con tutti ma in relazione con pochi o nessuno. Quante volte li si vede ripiegati sullo schermo di un telefonino incapaci di alzare lo sguardo per incrociare quello di un coetaneo. Estraniarsi è segno di uno spaesamento più profondo. È come se dicessero: qui non sono a casa. Il disagio di non sentirsi a casa da nessuna parte segnala la povertà relazionale. I rapporti umani esigono una scuola rigorosa di allenamento: parlare, raccontarsi, fare silenzio, ascoltare, suggerire, confrontarsi, dialogare, chiedere scusa… appartengono al variegato mondo delle relazioni. Tutti abbiamo provato delusioni, senso di oppressione interiore, incomprensione, conflitto. Abitarli non è facile: occorrono forme di accompagnamento umano e spirituale. Non siamo animaletti da riempire di cose: abbiamo bisogno di persone. Si diventa corpi estranei se ci si sente abbandonati.
Il secondo punto riguarda il valore dell’interiorità. Il mondo interiore di ciascuno è un vulcano. Talvolta erutta subito tutto ciò che bolle dentro: si destabilizzano le persone intorno, ma la vita procede alla luce del sole. Il problema è quando un ragazzo non riesce a far emergere nulla. Tutto rimane dentro: il sentirsi sbagliati o inadeguati, i pregiudizi, le frustrazioni, i fallimenti, i disinganni, le paure, la solitudine. Quel vulcano attivo interiormente ma invisibile agli occhi degli altri può scoppiare da un momento all’altro. E se non trova sfoghi adeguati rischia di diventare un’eruzione devastante per violenza.
In fondo, è un altro modo per dire: «Non vi accorgete che ci sono anch’io? E io non sono come volete voi! Sono altro rispetto alle vostre attese e ai vostri progetti». Questa interiorità va interpretata e sostenuta. Non si tratta semplicemente di non sapere dare un nome alle cose. È qualcosa di molto più profondo. È l’attenzione verso l’interiorità che dice la sete di riconoscimento della propria unicità e del proprio posto nel mondo. Il lavoro dentro ciascuno è di abitare i conflitti, di far emergere le domande, i dubbi e le insicurezze. Con buona pace di molti benpensanti, questo mondo ha a che fare con la vocazione e la spiritualità.
I maestri dell’interiorità si contano sulle dita di una mano. Intendo quelli che insegnano a fidarsi, ad affidarsi, a perdonare, a discernere i sentimenti, a pregare, a guardare in faccia alle paure senza sentirsi corpi estranei alla vita. I giovani avvertono queste assenze e tendono ad eliminare dal loro orizzonte un mondo adulto che gira su stesso, in una perenne giostra dei divertimenti. Ma la vita è un’altra cosa… Ecco il terzo elemento: la credibilità della generazione adulta. I genitori amici dei figli sembrano essere diventati il ‘non plus ultra’ e invece sono ridicoli. Gli adulti controllano con la posizione di Google Maps ma hanno smesso da tempo di dialogare e di preoccuparsi del mondo interiore dei figli.
Non sanno minimamente dove si trovino davvero! Le generazioni più grandi sono saccenti sulle vacanze, sullo sport, sulle diete ma non sanno fare discernimento sull’importanza di un ‘no’ detto al momento giusto e sul valore di un ‘sì’ di incoraggiamento. Ci si preoccupa della pagella scolastica ma non di cosa i ragazzi abbiano appreso. Ci si accontenta di regalare lo smartphone, ma non si insegna a usare un social. Si insulta l’allenatore se lascia in panchina il figlio, ma non si incoraggia il ragazzo a tirare fuori il meglio di sé e a non sottostare all’ansia da prestazione. Si è smesso di creare alleanze tra le agenzie educative per un lavoro comune e ognuna si illude di avere in pugno la situazione.
Si è lasciato il campo dell’affettività al ‘fai da te’. Ci si presenta belle/i a prova di selfie, forever young, mentre i figli di questa Europa o non votano più (non si fidano) o si gettano tra le braccia del politico autoritario. I giovani si sentono corpi estranei se li facciamo sentire tali rispetto alla vita. Forse non capiremo mai le ragioni che hanno spinto Riccardo a far fuori la sua famiglia. Il silenzio della non risposta ci serva a meditare sulla qualità delle relazioni e sulla capacità educativa. Non dobbiamo rimpiangere altri tempi. Possiamo solo abitare i nostri. Ce lo chiedono le nuove generazioni. Soprattutto quelle in crisi.
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