L'ANALISI
23 Aprile 2024 - 05:05
iacomo Matteotti fu sequestrato e ucciso il 10 giugno 1924
CREMONA - «Chi era Matteotti? Ve lo hanno descritto a fosche tinte, cospicue personalità che qui sono venute a deporre. Nefasta e deleteria fu la sua opera, prima, durante e dopo la guerra. Come sovversivo acceso, incominciò ad agire ai primi del 1914. Durante uno sciopero, in quell’anno, organizzò una manifestazione per impedire l’arrivo a Fratta Polesine dei liberi mungitori, cagionando la morte a grande quantità di bestiame. Combattè e vinse nella sua provincia gli elementi più temperati del socialismo e, in breve tempo, con una propaganda demagogica fra i lavoratori, divenne il despota della situazione»: lo dice Roberto Farinacci, nell’aula della Corte d’Assise di Chieti, difendendo Amerigo Dumini, uno degli uomini - con Albino Volpi, Giuseppe Viola, Augusto Malacria e Amleto Poveromo - che sequestrarono e uccisero il deputato socialista. Dumini fa parte della Ceka fascista, una polizia politica alle dirette dipendenze della presidenza del Consiglio, ovvero dal Duce.
Sono passati due anni da quando, il 10 giugno 1924, Matteotti viene rapito sul lungotevere Arnaldo da Brescia. Muore il giorno stesso, colpito al torace e sotto l’ascella, e sepolto alle porte di Roma. Il suo corpo viene ritrovato il 16 agosto successivo, riconosciuto solo grazie agli abiti e a ciò che resta della dentatura.
Il 30 maggio Matteotti fa il suo ultimo discorso in Parlamento, accusando con veemenza Benito Mussolini di brogli e violenza ai seggi, alle politiche del 6 aprile. Inoltre, sembra che Matteotti fosse prossimo a denunciare la corruzione dietro una convenzione tra il governo italiano e la compagnia petrolifera Sinclair Oil e il coinvolgimento diretto di Arnaldo Mussolini, fratello del duce.
L’estate del ’24 è rovente e non solo per il sole torrido. Il sequestro Matteotti fa rialzare la testa all’opposizione, che pure ha scelto la via dell’Avventino, e scuote l’opinione pubblica, turbata e intimorita. Lo stesso Mussolini è incerto sul da farsi ed è proprio Farinacci a spingerlo su una posizione intransigente.
Il 3 gennaio 1925, sei mesi dopo il delitto Matteotti, Mussolini può andare in Parlamento e proclamare: «Io assumo, io solo, la responsabilità politica, morale, storica di quanto è avvenuto (...) Se il fascismo è stato un’associazione a delinquere, io sono il capo di questa associazione a delinquere».
Il momento di maggiore debolezza della compagine fascista al governo diventa un punto di forza e di non ritorno: annullati i partiti d’opposizione, nel giro di un paio d’anni verranno emanate le ‘leggi fascistissime’, annichilendo ogni anelito di libertà e democrazia nel Paese.
Per Farinacci, però, la questione Matteotti non è finita. Non solo assume la difesa di Dumini, ma vive il processo - che Mussolini vorrebbe far celebrare senza enfasi - con clamore. È il segretario del Partito nazionale fascista, quello agli assassini di Matteotti è un processo politico e comporta anche la demonizzazione della vittima.
Matteotti, dice Farinacci, «era il calunniatore, il diffamatore freddo e sistematico». Morto per colpa sua, perché «preso dal timore, stretto dalle domande di chi era dentro l’automobile, sotto le pressioni energiche di chi voleva fargli confessare le relazioni energiche che intercorrevano fra lui ed i suoi compagni coi fuoriusciti assassini di Francia, qualche cosa ha dovuto ammettere, ciò che avrà indubbiamente indotto uno dei suoi avversari, in un momento d’ira, in un momento di forza irresistibile, in un momento di perturbazione mentale, a colpirlo con qualche pugno al torace che produsse l’emotisi e fatalmente la morte (...) perché quel pugno trovò in Matteotti l’uomo mingherlino (...) l’uomo già gravemente malato (...) l’uomo già riformato alle armi».
Farinacci, del resto, non si smentisce. «Non è colpa mia se aveva la testa troppo molle», disse il ras di Cremona alla morte di Attilio Boldori, massacrato dagli squadristi fascisti nel dicembre del 1921. Parole squallide, che si commentano da sole. Parole in netto ed evidente contrasto con il lucido e affettuoso ritratto che di Matteotti fa Piero Gobetti pochi giorni dopo il rapimento del deputato socialista.
I due scritti - il testo di Gobetti e l’arringa di Farinacci - sono stati pubblicati insieme nel 1945 dalla Libreria dell’800 Editrice. L’introduzione si deve all’allora venticinquenne Ruggero Jacobbi, poi profondo conoscitore della cultura lusitana, collaboratore di Paolo Grassi e Giorgio Strehler, autore di saggi critici e testi teatrali. Dopo averne tratteggiato la vita, Gobetti - precursore dell’antifascismo di matrice liberale - afferma che Matteotti non «poteva collaborare col fascismo per una pregiudiziale di repugnanza morale, per la necessità di dimostrargli che restavano quelli che non si arrendono (...) Perché la generazione che che noi dobbiamo creare è proprio questa, dei volontari della morte per ridare al proletariato la libertà perduta».
Dopo ripetuti pestaggi da parte degli squadristi, che gli aggravano o provocano problemi cardiaci, Gobetti lascia l’Italia nel febbraio del 1926, salutato alla stazione da Eugenio Montale di cui è stato il primo editore. Muore pochi giorni dopo, il 15 febbraio, convinto che il fascismo fosse «l’autobiografia della nazione».
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