L'ANALISI
27 Ottobre 2025 - 05:20
Saori Traoré con Gianluca Vialli
CREMONA - Era solo un numero. Il 77 impresso sul bigliettino bianco che gli è stato dato a Lampedusa dov’è sbarcato dopo la drammatica attraversata del deserto, le violenze continue in Libia, il rischio di naufragio nel Mediterraneo. Un’odissea che Sori Traoré, 42 anni, ha affrontato per fuggire dal Mali, uno dei Paesi africani più poveri e turbolenti a causa del terrorismo islamico. «Sono cristiano, per me restare era molto pericoloso, una questione di sopravvivenza».
Ora che le minacce, le persecuzioni e la paura sono alle spalle, il riscatto oscura, almeno in parte, quei ricordi strazianti. «Grazie agli italiani ho una casa, un lavoro e la speranza di un futuro per i miei due figli». L’immigrato è originario di Bamako, capitale del Mali, ma abitava a Gao, una città del nord. A 7 anni ha perso il padre, a 12 la madre. È cresciuto in una terra dove si va a tagliare la legna nella vicina foresta, dove non ci sono luce, se non quella a petrolio, e acqua. Niente tranne il sangue della guerra civile.
Di quel periodo Saori porta ancora incisi nel corpo i segni e, come attesta il certificato della visita medico-legale eseguita in Italia, «le cicatrici cutanee al dorso e alla gamba compatibili con colpi inferti da oggetto contundente». Ha quindi deciso di lasciare il Mali, dove non è più tornato, ha varcato la frontiera ed è entrato, con le tre sorelle, in Costa d’Avorio fermandosi ad Abobo, un sobborgo di Abidjan. Aveva vent’anni.

«Facevo il camionista spingendomi sino nel Burkina Faso e in Niger». Ma infuriavano i combattimenti anche nella sua nuova patria. Nel 2012, un gruppo di banditi ha tentato di ucciderlo cospargendo di benzina la sua povera casa, ma è stato avvisato e si è salvato. Poi ha cercato fortuna in Libia. «Il viaggio nel deserto è durato tre giorni, eravamo più di sessanta disperati pigiati sul camion. Uno è caduto, i trafficanti volevano picchiarlo ma sono sceso riuscendo a riportarlo di sopra in mezzo a noi». All’inizio non voleva parlare della Libia, delle sofferenze patite, delle torture.
È stato necessario del tempo per rompere il silenzio carico di angoscia. «Ho trovato un posto come autista di Tir, ma il capo non mi pagava e mi dava solo da mangiare. I libici disprezzano gli africani come me, gli africani che hanno la pelle più scura della loro, che vengono da Paesi come Mali, Costa d’Avorio, Nigeria. Ci chiamano ‘noir’. Una notte quell’uomo mi ha svegliato: devi partire subito per l’Italia. No, la mia risposta, non voglio, non so nuotare, non ho il passaporto, non ho niente. Ma dovevo ubbidire perché altrimenti mi avrebbe sparato».
E così è salito sul barcone. «Sono nato sulla sabbia, non avevo mai visto il mare, ero sicuro che sarei annegato. Anzi, mi sentivo già morto e questo, in qualche modo, mi rasserenava perché ho pensato: meglio dire addio alla vita piano piano invece che in pochi attimi, ucciso da un proiettile in fronte. C’erano onde alte, buio tutt’intorno. Ho pregato Dio, l’ho pregato molto. Ero con altre 100-150 persone, ignaro della nostra direzione. Dopo parecchie ore una grande nave della Croce Rossa ha mandato delle piccole imbarcazioni e ci ha tratto in salvo». Il 22 dicembre 2015, dopo alcuni giorni di navigazione, il porto di Lampedusa. «Non sapevo dove, ma da qualche parte ero arrivato. Ho ringraziato Dio per avermi fatto toccare terra». Quindi, il trasferimento a Cremona e a Spinadesco, in una cooperativa sociale.
Ancora inconsapevole di tutto, si è lasciato convincere da un immigrato del Gambia, che poi gli avrebbe rubato i pochi soldi in suo possesso, ad accompagnarlo in treno a Ventimiglia per cercare di entrare in Francia. Ma per due volte è stato respinto alla frontiera. «Con l’ultimo convoglio dalla Centrale di Milano, sono arrivato a Cremona e dalla stazione ho camminato di notte, con la mia valigia, sino a Spinadesco». Da lì, poco dopo, il trasferimento alla Casa dell’accoglienza. «Don Antonio (Pezzetti, ndr) mi ha offerto vitto e alloggio alla Caritas, ma ho capito che, se volevo migliorare la mia situazione, dovevo darmi da fare».
Grazie all’aiuto di Anna Grassi, la linguista incontrata casualmente su una panchina di piazza Roma, ha imparato l’italiano e spinto altri stranieri a seguire il suo esempio. Che grande soddisfazione per lui, sbarcato analfabeta in Italia, essere invitato in una scuola media a tenere una lezione sull’Africa in aula. I ragazzi lo ascoltavano meravigliati raccontare episodi di una vita lontana. Ha prestato la sua opera da volontario in parrocchia e cambiato diversi mestieri.

«Il primo è stato come steward della Vanoli al palazzetto dello sport, ero felice per quell’esperienza. Poi sono stato chiamato da un’impresa di pulizie e da un panificio, ho fatto anche il magazziniere». Non presentandosi in ritardo, distinguendosi per l’impegno. Il passaparola sulla sua serietà ha funzionato.
«Dopo un tirocinio di 6 mesi, sette anni fa sono stato assunto a tempo indeterminato, come operaio specializzato, da un’azienda cremonese, Giochi di Luce. Titolari e colleghi sono bravissimi. Ho preso la parente, sto viaggiando in Italia e in Europa, da Roma a Parigi, da Milano a Venezia». Quel giorno ha telefonato alla sua insegnante dicendole che si trovava in una città stupenda di cui non sapeva il nome ma che si estendeva tutta sull’acqua. «Ho avuto la fortuna di conoscere tante brave persone e di incontrare Gianluca Vialli, che mi ha ascoltato e accettato volentieri di scattare una foto insieme».
Sori, nel 2021, ha tagliato un altro importante traguardo ottenendo il rilascio del permesso di soggiorno. Abita e lavora in città, ma il suo pensiero va sempre alla figlia, Khadi, 23 anni, e al figlio, Tiemoko, 15, che vivono ad Abjdian. «Lì ho abbracciati solo nel 2022, il mio primo e sinora ultimo ritorno in Africa. Ogni mese mando loro una parte del mio stipendio, 200-300 euro, così possono mangiare. L’ideale sarebbe farli venire qui con me, a conoscere il mondo, cosa impossibile restando dove tutto è — come dire? — chiuso. Capisco però che sarebbe molto difficile».
Non è di semplice esecuzione nemmeno il piano B, però ci crede. «Alla fine sarò io a ricongiungermi con loro, metterò in piedi un’attività in Costa d’Avorio, accanto alla mia famiglia. Se la salute non mi abbandona, spero di riuscirci nel giro di qualche anno». È orgoglioso di se stesso. «Sono partito da zero ma ce l’ho fatta, grazie a Dio e agli italiani che mi hanno dato una mano». Ha conservato il bigliettino bianco di Lampedusa ma no, non è più solo il numero 77.
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