SOS ACQUA
11 Agosto 2021 - 08:35
CREMONA - Ci sono vite che procedono a zig zag, incrociando destini e voltando spesso pagina, a volte addirittura il nome. Sandro Mancini, che in realtà si chiama Ettore, e che negli ultimi anni ha lavorato a Brescia, ad alto livello, tra pubblicità ed editoria. Ieri a Cremona, sulle tracce della sua infanzia e di una giovinezza avventurosa. Ettore nasce a Milano il 24 aprile 1953, la madre è di origine cremasca e «non consente di essere nominata». Si farà viva qualche anno dopo, chiedendo che il figlio sia chiamato Sandro. E si ritroveranno quando lui è ormai adulto, poco prima che lei muoia.
È un ufficiale di Stato civile ad assegnargli nome e cognome, con due portieri come testimoni. Poco dopo Ettore arriva a Cremona, all’Istituto dell’infanzia abbandonata delle Carmelitane, le «suore tedesche» come le chiamano ancora oggi i cremonesi. Con la moglie Paola e la figlia Nicole («l’unico amore della mia vita»), Mancini ha visitato il convento di via Altobello Melone, che oggi è una residenza per anziani. Il cortile, la cucina, l’odore della mensa risvegliano i ricordi. Il cibo che a volte proprio non andava giù, ma bisognava mangiarlo per non finire in punizione e restare da soli in ginocchio per ore. O la sveglia alle 6 per andare ad aiutare monsignor Danio Bolognini che diceva messa a Santa Lucia. «Per ringraziarmi, a volte, chiedeva alle suore che mi mandassero in curia - ricorda -. C’era il vescovo, si mangiava insieme». Tra le tappe di ieri anche la tomba del suo protettore, nella cripta della Cattedrale, sopraffatto dalla commozione. Altri ricordi: il giorno di Santa Lucia era sempre festa grande, arrivavano il sindaco, varie autorità e si distribuivano i regali, «ma non so che fine facessero, non ci lasciavano giocare - spiega Mancini -. E l’anno dopo la stessa storia, gli stessi regali saltavano di nuovo fuori. Quello che avevo ricevuto l’anno precedente finiva a un mio compagno e così ogni anno».
«È una severità che mi ha temprato, non erano cattive, anzi, e poi devo a loro i miei valori», dice. Quando compie 14 anni, Mancini è costretto a trasferirsi all’orfanotrofio di via Geromini. Stessa severità, e l’adolescenza che fa mordere il freno. Tra i suoi compagni di collegio, più vecchio di lui, c’è anche Giovanni Imperi, più conosciuto come Banana. Non farà una bella fine, ma il ricordo resta affettuoso: «Sono venuto a Cremona per il suo funerale», dice. Un altro passo indietro: a 17 anni, dopo un lavoro all’Enel di Piacenza («era pericoloso, mandavano gli orfani»), Ettore si ritrova un po’ di soldi in tasca e con un amico dell’orfanotrofio scappa in Germania. «Lì per la prima volta ho bevuto il latte, ci avevano sempre dato quello in polvere», ricorda. I soldi finiscono presto, l’amico decide di tornare. Mancini si ferma in stazione, per qualche giorno si arrangia e dorme nei bagni «perché la polizia controllava solo le sale d’aspetto».
Poco tempo dopo una svolta che ha dell’incredibile: «Mi avvicina un signore, mi chiede se voglio guadagnare tremila dollari», dice. Ettore accetta senza pensarci troppo, viene accompagnato prima a Strasburgo poi si ritrova a Calvi, in Corsica, per l’addestramento nella Legione straniera: «È stato duro, ma ero abituato alla disciplina delle suore, e poi mangiavo tutti i giorni». Di quel periodo può dire solo che è stato in missione in Yemen, la reticenza è d’obbligo. Al rientro in Europa, sceglie ancora una volta la Germania. È il periodo buio del terrorismo, la Banda Baader-Meinhof fa paura e c’è bisogno di persone esperte in sicurezza. «Ero un mercenario», ammette. Ma è bravo e finisce a Colonia al servizio di Hans Gerling, un uomo d’affari a capo di uno dei maggiori gruppi assicurativi d’Europa.
Passa qualche anno, la nostalgia dell’Italia si fa sempre più forte. Mancini torna e appena passato il confine, finisce nel carcere militare: a tutti gli effetti è un disertore. La detenzione dura poco, «in Italia c’erano le Brigate rosse, Pertini passava da un funerale all’altro. Venne il ministro Nenni, mi fece scegliere se fare tre anni di carcere a Gaeta o lavorare per i Servizi». Anche qui si glissa sui dettagli, i ricordi tornano sul rientro a Cremona. La città è cambiata, c’è una generazione devastata dall’eroina. Ettore ora ha i soldi, fa la bella vita e ci mette un po’ a capire che i tanti amici che gli chiedono 50mila lire in prestito usano i soldi per bucarsi. Non ci sta, intercetta madre Agata Carelli che va in giro a raccogliere i tossici, li mette a dormire nelle aule delle Magistrali, dalle Canossiane, procura cibo, vestiti, fa il possibile per strappare i ragazzi alla dipendenza. «C’era anche Angela Cauzzi, la futura direttrice del Ponchielli - ricorda l’ex legionario -. Insieme abbiamo fondato il Gruppo Incontro». La visita a Cremona si conclude proprio alle montagnole dei Giardini: ancora una volta, la città non è più la stessa.
Sono tante le vite di Sandro Ettore Mancini, e una è legata alla musica, una passione che gli è rimasta: ancora oggi quando va a camminare, ascolta sempre qualcosa. Da ragazzo, ha animato i pomeriggi e le sere dell’Esedra, sotto la galleria Kennedy, quando le discoteche non esistevano ancora e a ballare si andava nei dancing. Un locale storico, dove ha fatto tappa anche Caterina Caselli con il Cantagiro, e che ha più volte cambiato nome, fino a diventare il PlayBoy. «Ero conosciuto come Salkako, se si va a vedere il giornale di quegli anni sono citato tantissime volte», ricorda Mancini, e chissà quanti cremonesi hanno ballato con la sua musica. Probabilmente anche il termine dj non era ancora di uso comune, certe cose sarebbero venute solo con il tempo.
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